La questione decisa dal Tribunale di Firenze (II sezione civile) con sentenza pubblicata il 13 dicembre 2021, numero 3204 , trae origine dalla creazione di tre varchi, praticati nel muro perimetrale condominiale ad iniziativa di una condomina, per mettere in collegamento unità immobiliari ricadenti in condomìni contigui. Ciò senza aver previamente acquisito il necessario assenso assembleare da parte dei condòmini (comproprietari del muro perimetrale). Le aperture erano finalizzate alla trasformazione delle unità immobiliari con destinazione commerciale in miniappartamenti ad uso residenziale. Ciò nell’intento di locarli per conseguire vantaggi economici.
La decisione
Il decidente fiorentino ha chiarito che i varchi realizzati sarebbero stati legittimi se gli immobili posti in comunicazione ricadevano in un unico edificio. Ha precisato, poi, che il muro perimetrale condominiale è destinato al servizio esclusivo dello stesso del quale costituisce parte organica per funzione e destinazione. Perciò la comunicazione di immobili esclusivi situati in due diversi stabili integra un uso indebito del bene comune in quanto i collegamenti alterano la destinazione del muro (la cui funzione è quella di delimitare il fabbricato) e determinano una illegittima servitù a favore di proprietà esclusive.
Per poter essere considerata legittima – ribadisce il tribunale fiorentino – l’opera avrebbe dovuto essere preceduta dalla acquisizione del consenso assembleare espresso dalla totalità dei condòmini. Attrarre una porzione di muro nella propria sfera dominicale determina un indebito asservimento. Inoltre, l’abuso altera l’utilizzo del bene comune e incide sul pari uso del muro perimetrale (fruizione paritetica della funzione di recinzione). L’uso più intenso è legittimo solo quando non sconfina nell’esercizio di una servitù, per la cui costituzione è necessaria l’unanime manifestazione di volontà dei restanti condòmini.
Quando viene meno il pari uso della cosa comune
Il concetto di pari uso della cosa comune sancito dall’articolo 1102 Codice civile non va inteso nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi che ciascun condomino possa ritrarre la più intensa utilizzazione. Nel caso di specie, è emerso che ai restanti condòmini, a séguito delle modifiche eseguite sul muro dalla condomina, non sarebbe stato più possibile esplicare un pari uso del bene comune. Ciò determina l’illegittimità delle opere in quanto, oltrepassando il limite imposto dall’anzidetto disposto, ledono il godimento che ciascun condomino avrebbe potuto ritrarne. Su tali presupposti il Tribunale di Firenze ha accolto la domanda condannando la condomina a chiudere, con opere murarie definitive a sue spese, tutti i varchi esistenti nelle unità immobiliari di sua proprietà realizzati nel muro perimetrale che separa i due stabili.
La creazione del varco determina una indebita servitù
Un costante indirizzo giurisprudenziale di legittimità ritiene che il diritto del condomino di servirsi del bene comune non può estendersi a vantaggio di cespiti immobiliari estranei. Le aperture realizzate sulle parti comuni (come, ad esempio, muri maestri costituenti l’ossatura portante dell’edificio, muri perimetrali e muri di rivestimento o riempimento) per mettere in collegamento proprietà esclusive con altre ricomprese nell’àmbito di un complesso edilizio integrano un uso indebito della cosa comune e determinano la costituzione di una servitù a carico del fondo condominiale (Cassazione 25775/2016, 4501/2015, 3035/2009 e 15814/2008).
Più recentemente (Cassazione 20543/2020) , la corte di legittimità ha dichiarato «illegittima l’apertura di un varco nel muro divisorio volta a collegare locali di proprietà esclusiva del medesimo soggetto, tra loro attigui, ma ubicati ciascuno in uno dei due diversi condomìni, in quanto una simile utilizzazione comporta la cessione del godimento di un bene comune, quale è, ai sensi dell’articolo 1117 Codice civile, il muro perimetrale di delimitazione del condominio, in favore di una proprietà estranea ad esso, con conseguente imposizione di una servitù per la cui costituzione è necessario il consenso scritto di tutti i condòmini».Il condomino non può utilizzare la cosa comune a servizio di un bene esclusivo perché verrebbe a determinarsi l’imposizione di una servitù prediale che, invece, deve essere consentita dalla totalità dei condòmini.
Il caso di edifici attigui
È evidente che l’utilizzo non autorizzato a favore del nuovo immobile si risolve necessariamente nella costituzione di una servitù con pregiudizio dei restanti condòmini. Tale è il caso di una servitù a carico del condominio costituita dal vicino il quale sia anche condomino dell’edificio: quindi, del proprietario del fondo vicino (estraneo al condominio) il quale, avendo acquistato una porzione dell’edificio in condominio, ritiene di poterlo asservire aprendo un accesso nel muro divisorio situato sul confine. Perché possa costituirsi una servitù a carico delle parti comuni è richiesto il consenso unanime dei condòmini da manifestarsi mediante delibera assembleare.
In proposito, l’articolo 1108, comma 3, Codice civile – disposto inderogabile applicabile pacificamente al condominio di edifici in forza del rinvio operato dall’articolo 1139 Codice civile – disciplina gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione che importano la disposizione della cosa comune o gravissime limitazioni al godimento e all’uso della stessa fra cui la costituzione di diritti reali sul bene comune per la cui validità «è necessario il consenso di tutti i partecipanti». L’intenzione di tale dettato normativo è indirizzata a sottrarre alla maggioranza decisioni negoziali che comportano gravose disposizioni del bene comune.
Il legislatore del 1942 ha ricompreso nel novero dell’istituto della comunione due norme fondamentali i cui contenuti si completano a vicenda: da un canto, l’articolo 1108, comma 3, Codice civile volto a disporre che nessuna forma di servitù può essere posta in essere se non con il consenso unanime, dall’altro, l’articolo 1102 Codice civile secondo cui ogni condomino ha facoltà di usare la cosa comune per conseguire maggiori utilità alla precisa condizione di non immutare consistenza e destinazione in modo tale da non compromettere l’equilibrio fra i concorrenti interessi dei comproprietari. Tale forma di uso non instaura alcun asservimento a carico del bene collettivo.
Divieto di ritrarre vantaggi a favore di immobili estranei
L’articolo 1102 Codice civile opera esclusivamente nei rapporti fra i condòmini dell’edificio, non invece nei rapporti fra il condominio e il proprietario dell’immobile contiguo, per cui ogni condomino può disporre della cosa comune per ritrarre maggiori godimenti in relazione all’unità immobiliare inclusa nel plesso edilizio, non invece con riguardo a proprietà situate al di fuori dello stesso.Anche la giurisprudenza ha chiarito che il principio sull’uso della cosa comune consentito al partecipante non è applicabile ai rapporti fra proprietà individuali e limitrofe.
L’esercizio del potere di ogni condomino di utilizzare il bene comune, negli àmbiti sanciti dal cennato disposto, deve necessariamente esaurirsi nella sfera giuridica e patrimoniale del diritto di comproprietà sulla cosa stessa e non può estendersi, quindi, per il vantaggio di altri e differenti immobili del medesimo condominio poiché in tal caso si verrebbe ad imporre una servitù sulla cosa comune per la cui costituzione occorre, come dianzi ribadito, il consenso di tutti i condòmini (Cassazione 11138/1994 e 221/1980).La dottrina ha rilevato, in assonanza con la giurisprudenza, che «la radice di tale principio scaturisce dal fatto che la cosa comune deve servire al condomino come tale, non potendosi conseguire l’unificazione di due personalità distinte: quella del condomino e quella del terzo proprietario estraneo al condominio» (Terzago, Il condominio, Trattato teorico-pratico, Milano 1993, 195 e seguenti). L’illiceità dell’apertura va ricercata nell’assoggettamento di una delle parti comuni al servizio dell’immobile attiguo appartenente al medesimo proprietario, tuttavia estraneo al plesso condominiale.